di Daniele Cini

Sarà anche una di quelle parole abusate, che rischiano di annegare nello zucchero o lasciare perplessi i più esigenti, evocare canzonette o polpettoni hollywoodiani, eppure nominare il sogno mette sempre di buon umore.

Per me, che ho provato a conciliare la vita concreta, con il desiderio di realizzare visioni nate dalla mia fantasia, il sogno era già in sé quello di riuscire a farcela: ma anche i molti sogni espressi ad alta voce, in realtà progetti, che poi diventavano prodotti – più o meno corrispondenti a ciò che avevo sognato all’inizio.

Anche se poi il sogno vero si fa di notte: giacché quello che emerge nella veglia già si trasforma subito, entrando in contatto, o in conflitto, con la sua realizzabilità.

Ho cominciato da piccolo, a 15 anni, con una cinepresa super 8.

Era il 1970 e con un mio amico girai e montai un buffo poliziesco di 35 minuti, che poi riuscimmo a proiettare per alcuni giorni, in un cineclub di culto romano, il Filmstudio, riempiendo sempre la sala (si chiamava “Pardon Monsieur”).

Dieci anni dopo la RAI della Tv dei ragazzi lo comprò e lo mandò in onda.
Così fui chiamato, assieme ad alcuni miei compagni di Centro Sperimentale, a immaginare un programma pomeridiano in cui per ogni genere narrativo (horror, musical, western, fantascienza, thriller e melò) ci fosse un telefilm, interpretato solo da ragazzini.
Sognammo per un anno, inventando in totale libertà. Ognuno pescava dal suo immaginario, si svegliava la mattina e raccontava agli altri (o lo scriveva con la Lettera22 facendo un po’ di copie in carta carbone) quello che gli era passato per la testa.
Vivevamo con poco, facendo lavoretti che non ci interessavano: tutta l’energia finiva in questi pomeriggi di grandi risate e applausi, di “buuuh” e di “evviva!”; scrivevamo anche canzoni e le provavamo con dei ragazzini di 7-8 anni al pianoforte.
Dopo un anno di varie stesure, la Rai ci liquidò comprando i testi, ma rinunciando alla loro realizzazione: il Direttore generale decise che la politica aziendale non prevedeva più la produzione di telefilm. Si stava orientando sui reality show.

 

Non intendo raccontare tutta la mia vita, ma quest’episodio segnò l’inizio di una serie di delusioni che non riguardavano la qualità dei progetti sognati o della loro realizzazione scritta. Riguardavano la possibilità stessa di sognare.
Forse lo stop avvenne anche per la nostra “pretesa” di sognare collettivamente: pensando di essere più forte, mi ero presentato alla Rai con una cooperativa. Magari loro avrebbero preferito un solo timoniere.
Venivo da anni di grande impegno politico: il ’68 mi aveva cambiato la vita e il sogno condiviso coi miei coetanei di una società più giusta, utopica, di una Rivoluzione, era stata la colonna sonora di tutti i miei anni di liceo e di Università.
Da questa esperienza scrissi un libro “Io la Rivoluzione e il babbo” per la casa editrice Voland (nel 2005) e da allora sogno, ripetutamente di trarne un film.

Nel corso della mia vita ho ridimensionato gradualmente le mie aspettative sulla “quantità di sogno” realizzabile: anche perché quello che prima mi appariva come “un film” è diventato col tempo “un prodotto filmato”.
Il sogno di un autore è sempre fatto dell’incontro con la materia produttiva: prima di tutto le disponibilità finanziarie, ma anche l’orizzonte a cui è destinato, il suo pubblico. E infine i collaboratori: perché qualunque film, o documentario o cortometraggio, non si fa mai da soli. Però poi il timone torna sempre a chi ha cominciato la traversata.
Il sogno diventa allora il desiderio di navigare quella rotta: con una storia che avvinca, emozioni, e che quindi si voglia raccontare per immagini, parole, musica. E che faccia rivivere un’esperienza onirica da svegli.

 

Come mi è capitato con “Noi che siamo ancora vive”.

In quell’occasione, l’esperienza che mi è stata proposta da un amico, di seguire il corso di un processo penale a dei militari argentini per la scomparsa di alcuni cittadini italiani durante la dittatura del 1976-83,  mi ha messo in moto un vissuto emozionale talmente forte che si è trasformato nel sogno, o nel bisogno, di un racconto che corrispondesse esattamente a quei sentimenti. Permettendo poi, a chi lo guarda di rivivere l’incubo, ma anche il percorso di riparazione.
La stessa esperienza ha preso forma in un altro sogno, questa volta tutto immaginato, in cui quei desaparecidos finiti in fondo al mare, gettati dagli aerei dei genocidi, mi sono apparsi come fossero vivi, in una specie di Atlantide subacquea abitata da sirene. Era l’episodio di un film collettivo, “All human rights for all” e si chiamava, appunto “la Sirena(trovate qua il link al progetto e al corto: http://www.talpaproduzioni.com/projects/la-sirena-2008/).

Raccontare storie che hanno spunti in vicende tragicamente reali, come queste, mi è certamente riuscito meglio di quando ho provato a lavorare direttamente su materiale emerso solo dalla mia fantasia.

In un film per il cinema, Last Food (2004), il tema del sogno tornava nell’allucinazione angosciosa del superstite di un incidente aereo.

E in un cortometraggio, che fu premiato nel 2001 al Torino film festival (“Zittitutti”) in cui il protagonista, il bravo attore svizzero Jean Luc Bideau, un rumorista del cinema con una certa sordità sentimentale, immagina di essere diventato sordo veramente, come già lo era stato nella tenera infanzia. Il sogno qui era un’ossessione, la paura di perdere i sensi: anche nel significato letterale dei 5 sensi. Quest’ossessione è anche l’ispirazione del film Last Food.

C’è un’altra storia che ho raccontato in un altro film collettivo, “Intolerance”, del 1997, in un episodio interpretato da Silvio Orlando e Francesco Paolantoni. L’episodio “Arrivano i sandali”, selezionato a rappresentare il film collettivo al Festival di Venezia e in seguito in quello di Cannes. Là il tema dell’intolleranza veniva declinato in un altro incubo, in cui tutti i viaggiatori di un autobus erano interpretati dallo stesso attore, ed erano uniti dal fatto di portare scarpe chiuse. L’arrivo del povero Orlando con dei vistosi sandali aperti, scatenava un inferno di intolleranza e aggressività. Un altro incubo, reso lieve dalla cifra grottesca.

Il tema del sogno mi ha accompagnato anche nella mia carriera di documentarista, tanto che un lungometraggio per la Rai, che raccontava i turbinosi cambiamenti della nuova era di Internet (tra il 2000 e il 2001) finì per intitolarsi: Sogni.com.
Con gli anni, il mio lavoro è sempre  più circoscritto a temi che mi vengono proposti dai committenti. Mi devo perciò muovere in terreni in cui l’immaginazione scende a compromessi con una scelta fatta da altri.
Eppure è un lavoro che, ogni volta, offre un regalo: quello di poter sempre metterci dentro qualcosa che emerga dal profondo. Una musica, una maniera di guardare, di fotografare, di scandire il ritmo col montaggio, una chiave di racconto, una frase, un silenzio.
Sono scelte fatte ad occhi aperti, ma in cui cerco di far coincidere ciò che sento con ciò che sto mettendo insieme.

E così, quando azzecco quest’incontro, la realtà, a volte, diventa un nuovo sogno.

 

DANIELE CINI

Diplomato al Centro Sperimentale nel ’78, si dedica principalmente al documentario, collaborando con programmi tv quali QUARK, PAN, EUREKA, DELTA, MIXER, FLUFF, GEO & GEO, LA STORIA SIAMO NOI, CORREVA L’ANNO e HISTORY CHANNEL.

Nella fiction lavora a per la serie poliziesca LA SQUADRA e le minifiction MISTERI e ULTIMO MINUTO, ideando con Carlo Lucarelli il programma BLU NOTTE. Nel cinema dirige e scrive il film “LAST FOOD” e i cortometraggi ARRIVANO I SANDALI,  ZITTITUTTI e LA SIRENA, premiati in diversi festival. Globo d’oro 2009 per il documentario “NOI CHE SIAMO ANCORA VIVE”, finalista ai Nastri d’Argento 2010.

Fra gli altri: per Rai 3 “In Iraq dopo la guerra” (1991) “Fatti e Fantasmi” (1992) per Rai fiction “Sogni.com” (2002) per Rai1 “Bambini Guerrieri”(2013) per Rai Expo “Hungry and foolish” (2015). Autore del libro “Io, la rivoluzione e il babbo” per Voland Edizioni.

 

 

Categorie: Sogni d'Autore

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